In “Giovani Wannabe” c’è tutta l’ambizione dei Pinguini Tattici Nucleari

“Noi siamo giovani wannabe, ti dedico le autostrade che portano al mare…” Quella che per molti è ancora una frase difficile da identificare musicalmente, si candida a diventare uno dei tormentoni più amati dell’estate italiana 2022, con le sonorità di un viaggio on the road che esplora mondi nuovi e un testo che celebra l’ambizione di chi con tenacia cerca il suo posto nel mondo, con la voglia di imparare ogni giorno qualcosa di nuovo.

Abbiamo incontrato Riccardo Zanotti nel suo studio di registrazione, un’officina della musica dove diversi artisti investono tempo e impegno a perfezionare il proprio stile e dove lo stesso frontman dei Pinguini Tattici Nucleari sta preparando insieme a tutti gli altri componenti della band un tour piuttosto diverso rispetto a quello previsto e poi rimandato due anni fa a causa della pandemia.

Perché dopo il successo raggiunto con il terzo posto di “Ringo Starr” al Festival di Sanremo 2020, il gruppo bergamasco non si è fermato e nonostante le restrizioni dovute al Covid-19 ha continuato a sfornare successi che soddisfano i gusti di diverse generazioni. “Giovani Wannabe”, il singolo pubblicato venerdì 27 maggio, è solo l’ultimo lavoro di un percorso che nel 2020 è passato prima dalla ristampa dell’album “Fuori dall’hype – Ringo Starr” e successivamente si è confermato con l’Ep “Ahia!”, certificato disco d’oro dopo nemmeno due mesi dalla pubblicazione. E come racconta lo stesso Zanotti a “Sound On”, il segreto di un lavoro costante e ricercato nasce dalla fame con cui l’intera band si affaccia a un mondo fluido, capaci di offrire qualsiasi genere di conoscenza.

 

Come avete vissuto il successo che vi ha travolto con il Festival di Sanremo?
Ce ne siamo resi conto abbastanza presto. Banalmente un giorno mi sono ritrovato una giornalista che bussava alla porta di casa, non era mai successo prima. Anzi, eravamo noi a dover cercare loro. Anche il riconoscimento per strada, che prima era contingentato a ragazzi della zona o studenti universitari, poi è diventato un fenomeno più esteso. Sono cose che ti cambiano la vita, ma a essere onesti non abbiamo mai avuto problemi. Questo, ad esempio, è il vantaggio dell’essere una band perché o ci vedono tutti e sei insieme, oppure gli altri sono molto più tranquilli. Il cambiamento si è sentito, ma fino a un certo punto. Però confesso che è bello.

 

E per quanto riguarda l’approccio alla scrittura?
Pur lavorando tutti i giorni in studio a Milano, io continuo a vivere a Bergamo. Questo sicuramente aiuta ad avere una dimensione provinciale, quantomeno mentalmente. Significa rendersi conto della fortuna nel poter fare un certo tipo di percorso diverso da quello di molti coetanei, di aver saputo sfruttare determinate occasioni. Però, allo stesso tempo, essere a contatto con i vecchi amici aiuta a pensare che la vera vita sta lì. Siamo rimasti gli stessi.

 

Come fai a fotografare un certo tipo di realtà in maniera così limpida? I vostri testi si potrebbero un po’ paragonare a quelli degli 883 negli anni Novanta, quando raccontavano vicende di tutti i giorni, per la maggior parte sfortunate.
Gli 883 ci hanno influenzato molto, per noi Max Pezzali è un grande riferimento. Il centro del discorso è proprio la maledizione della provincia, se così si può chiamare, ovvero l’idea che dopo aver fatto delle esperienze all’estero – come nel nostro caso – si torna a casa e si ritrova quello che mancava altrove. È chiaro che non basta, però va considerata come una bussola interna e come punto di forza da un punto di vista creativo. Qualcuno può percepire che io scriva canzoni su grandi avvenimenti della vita, ma la realtà è che parto sempre da piccoli frammenti di quotidianità in cui si possono rivedere in molti. Da questi pezzi del puzzle, poi si possono anche desumere grandi insegnamenti.
Max Pezzali ai tempi utilizzava immagini semplici. Una delle mie preferite è il riferimento alle due discoteche e le centosei farmacie, all’inizio di “Con un Deca”. Una è l’emblema del malessere, l’altra è sinonimo di divertimento, anche incoscienza, eppure hanno un impatto visivo della provincia in pochissime parole. Ecco, io cerco di fare la stessa cosa in un modo diverso e più appartenente alla mia epoca.

 

Tu inoltre accosti immagini attuali a tanti riferimenti di altre epoche
Credo sia l’attitudine più adatta alla mia generazione. Il mondo è a portata di click e noi siamo in grado di avere un bacino enorme di conoscenza a portata di mano, senza fare fatica. Basta un po’ di curiosità, che penso vada da sempre a braccetto con la giovinezza, come raccontiamo nel nostro ultimo singolo “Giovani Wannabe”. Quando si hanno a disposizione determinati strumenti, un giovane non può che vivere in un presente liquido, che al contrario di quello dell’hic et nunc comprende quantomeno un secolo. Cito Aldo Moro, o Jimi Hendrix, perché avendone letto la storia li sento vicini. Forse qualcuno potrebbe definirla una sindrome dell’epoca d’oro, come se volessi vivere quelle epoche che non ho mai vissuto. La realtà è che mi sento immerso in qualcosa di più grande di me e il mio presente affonda le radici anche in cinquant’anni fa, per me Hendrix mi parla. Sono un nano sulle spalle di giganti, mi piace vedere oltre perché sotto ci sono delle entità molto più alte di me.

Parli di curiosità riferita al passato, mentre il nuovo singolo “Giovani Wannabe” guarda ai giovani e al futuro…
“Giovane” è una parola stramba, non si sa bene cosa voglia dire. Io ho 27 anni, un’età strana per chi fa musica perché o con la morte si diventa idoli, oppure se vai avanti sembri destinato in qualche modo a decadere.
Personalmente la definizione di gioventù è chi ha ancora fame, al di là dell’età anagrafica. Il termine Wannabe si ricollega a questo, perché solitamente è usato in modo denigratorio, ma in realtà è bellissimo poter ambire a qualcosa. Trovo molto poetici, per esempio, i pensionati che si iscrivono all’università. Quella è la quinta essenza del giovane. E la canzone è dedicata proprio a questo sentimento innato che io chiamo fame, fame primordiale di vita. Penso di aver ancora un po’ fame perché ci sono dei sassolini nella scarpa che vorrei togliermi, delle cose che voglio conquistare, dei palchi che vogliamo calcare come band. Siamo ancora giovani dai…

 

Quando si raggiunge il successo, come si alimenta la fame?
Voler aggiungere un mattoncino in più non penso sia una cosa sempre sana. Penso sia molto capitalista, senza associarlo a qualcosa di negativo, perché ci viene insegnato che quando conquistiamo qualcosa dobbiamo investirlo, crescere, ampliarci, massimizzare. Io provo a lavorare con due mani: con una cerco di accontentarmi, perché altrimenti va a finire male, mentre con l’altra penso a cosa mi rende felice. Determinate cose so che non saranno mai il focus della mia vita; so che quando salgo su un palco e la gente canta le mie canzoni vivo un momento di felicità estrema, il brivido più grande della mia vita, perché mi sento amato e a volte non credo nemmeno di meritarmelo. Non a caso prima di esibirmi ho molta paura. Per me è sempre stata una questione di accettazione, scrissi la prima canzone a quattro anni e fu per il cane dei miei vicini, per far capire ai miei genitori che anche io ne volevo uno, così come scrivevo canzoni per la ragazzina che mi piaceva alle scuole superiori.
Per questo motivo voglio continuare sulla strada del live, la fame della mia vita. So che non mi piace tanto apparire in televisione, oppure non mi interessa recitare. Ma magari cambio idea, perché cinque anni fa avrei detto di non voler mai scrivere un romanzo e invece quando l’ho finito mi sono sentito in paradiso.
Sta tutto nel capire cosa ti rende felice. In quel caso si può assumere un’etica capitalista e voler progredire, ma allo stesso tempo firmerei per rimanere dove sono ora perché sto benissimo.

 

 

Anche perché, nonostante due anni di pandemia, avete fatto veramente tanto
Se tu non vuoi stare fermo e il mondo attorno a te è immobile, ogni piccola occasione che ha la parvenza di movimento cerchi di attirarla a te. Noi abbiamo cercato di fare di tutto, perché è il senso della nostra vita. All’inizio ci sono stati dei momenti in cui ci sentivamo persi, senza uno scopo. Poi abbiamo iniziato a sentirci e a un certo punto ci siamo resi conto di preparare dei concerti che in realtà non avremmo mai fatto, ma ci andava bene lo stesso perché era un modo di darci un obiettivo.

 

Tra l’altro voi avete iniziato a preparare un determinato tour, però poi avete prodotto un Ep e sfornato tanti successi: come cambia lo spettacolo rispetto a quello originale?
Chiaramente quando in due anni hai scritto sei canzoni irrinunciabili perché sono diventate le più ascoltate, bisogna rivedere alcune cose. Addirittura, noi per il tour del 2020 non avevamo inserito “Ridere”, perché era appena uscita e non sapevamo quale sarebbe stata la reazione del pubblico. Però c’è un team di settanta persone che lavora a un live pazzesco, pieno di sorprese, di luci e video ad hoc. E quando cambia almeno il 40% della scaletta diventa complicato. Ci si rimbocca le maniche e si lavora, senza escludere anche dei momenti di tensione, definita nel senso positivo del termine.

 

A proposito di tensione, come si fa ad andare d’accordo in una band di sei componenti?
È una sorta di arte che abbiamo perfezionato negli anni. All’inizio era più difficile perché non facendolo di mestiere, c’erano altri impegni di mezzo. Adesso invece l’obiettivo è comune e in sala prove siamo molto bravi a trovare compromessi. L’arte della diplomazia in una band è quello che ti permette di andare avanti. E poi ci conosciamo quasi al punto da prevedere le mosse dell’altro. Il live però mette insieme l’anima di tutti e sei, con pezzi rock, quello metal, folk e così via. Nella scrittura, invece, è facile perché l’idea parte da una persona e poi ci si confronta, anche se magari in futuro proveremo anche a comporre insieme.

 

 

A differenza di tanti artisti emergenti di oggi, provenienti dai talent o da social network su cui registrano già numeri importanti, voi avete seguito la classica gavetta…
Forse da questo punto di vista siamo old fashioned, dato che un tempo era la prassi. Per me, ad esempio, è stato positivamente incredibile vedere Blanco riempire grandi posti e fare degli ottimi live, dopo aver iniziato dall’Alcatraz. Per noi quel posto era un punto di arrivo, perché quando nella nostra nicchia lo fecero i Thegiornalisti era qualcosa di inconcepibile. Noi forse siamo a cavallo tra quel mondo indipendente, che per anni è andato avanti con i vari Vasco Brondi e Brunori Sas – che recentemente hanno trovato più fortuna – e quello che è stato il post-Calcutta, quando il nostro è diventato un genere più mainstream. Ci siamo trovati a cavallo e la gavetta l’abbiamo fatta per davvero, anche quando bisogna conquistarsi la gente che non è lì per te, oppure suonare in locali semivuoti. In quel caso ci sta anche non essere apprezzati, fa comunque parte della crescita.

 

Voi adesso avete un’identità ben precisa, ma è difficile collocarvi in un genere ben preciso…
È quello che dicevamo prima sulla generazione fluida. Posso essere più o meno bravo a declinarlo, però in questa epoca ho a disposizione tutto, i cataloghi generano ancora cifre assurde perché c’è tanta compravendita, probabilmente più di quanto accadesse negli anni Novanta. Perciò voglio provare ad attingere da tutto perché condividiamo tutti e sei questa visione del mondo e della musica. E la difficoltà di collocarci a livello di genere è la bellezza di questo mestiere.

 

“Giovani Wannabe”, ci racconti il videoclip di questa nuova canzone?
Si parla della voglia di trovare il proprio posto nel mondo, perciò c’è un doppio riferimento al tema del viaggio. Ognuno cerca la sua collocazione non solo a livello di professione, ma anche sessuale, di genere, di salute mentale, i grandi temi della nostra epoca. Attraverso il viaggio di questa ragazza, si tratta il tema della trasformazione, del riconoscersi per quello che si è. Una sorta di favola moderna che si sposa bene con il testo della canzone e che ha molti layer ricollegati a delle simbologie orientali, come il simbolo legato alla volpe. Parla di trasformazione vissuta in maniera naturale, come dovrebbe essere sempre.
(Clicca qui per vedere il videoclip di “Giovani Wannabe”)

 

 

Avete già in cantiere il prossimo album?
Ci stiamo lavorando proprio ora, anche se con il tour faremo una pausa. Abbiamo già una quindicina di canzoni e dobbiamo decidere se tenerle tutte, scremare, o aggiungere. Non ha ancora una forma, però di alcuni brani siamo molto contenti e orgogliosi. C’è un po’ della nostra storia autobiografica, perché abbiamo deciso di raccontare ai nostri fan quali sono stati i nostri inizi, ci sono canzoni di protesta, se così vogliamo definirle, c’è un po’ di tutto.

 

Cos’è per te la musica?
Un’ossessione che mi ha fatto trovare un posto nel mondo. Convincersi che ci sia un tesoro nascosto a Milano, cercarlo in ogni via mentre tutti negano la sua esistenza e poi trovarlo. Riconosco che per tanti altri possa continuare a rimanere un’illusione e riconosco che nel nostro caso abbiamo avuto tanta fortuna. È una magia rendersi conto che la gente canta le tue canzoni, avere feedback positivi di gente che ti vuole bene e che aspetta l’uscita delle tue canzoni.

di Alessandro Ventre