di Alessandro Ventre
Negli occhi si rivedono le braccia al cielo dei sessantamila che per due sere hanno invaso San Siro per cantare ininterrottamente, nella testa i brani che da trent’anni accompagnano le nostre vite facendoci sentire meno soli, soprattutto nelle avversità quotidiane e nei momenti in cui aspettative e realtà imboccano strade destinate a non incontrarsi mai. Perché a Max Pezzali va riconosciuto prima di tutto il merito di aver saputo cogliere stereotipi e frustrazioni appartenenti un po’ a ognuno di noi e di averli fotografati in maniera goliardica con brani diventati l’inno italiano degli anni Novanta.
Ma nella ricetta vincente di un gruppo che tuttora non trova eguali nella discografia italiana, gli 883 sono stati anche precursori. Innanzitutto, di un linguaggio moderno che accetta lo spostamento degli accenti sulle parole pur di rispettare la metrica, di sonorità semplici e allo stesso tempo ricercate, di ritornelli che nella maggior parte dei casi si consumano esattamente in quindici secondi, lo stesso arco temporale concesso da Instagram per le stories.
San Siro è la cornice perfetta per ritrovare l’atmosfera di quel periodo e per celebrare un’artista che prima di raggiungere lo stadio di Milano è salito in sella all’inseparabile Harley-Davidson, a cui deve addirittura il nome del gruppo, e ha dovuto percorrere un tragitto decisamente più lungo dei cinquanta chilometri che separano la Scala del calcio dalla sua Pavia.