Tommaso Colliva: “In questo mestiere non esistono scorciatoie o trucchetti”

“Io non sono un artista e non voglio esserlo. Sono una persona e come tutte le persone ho la mia soggettività. La domanda che mi pongo sempre è <Come faccio ad essere utile all’artista che ho davanti?>”.

Oggi parliamo di un’eccellenza italiana nel mondo, di un produttore e tecnico del suono che ha dato colore e personalità ai dischi dei Muse, Afterhours, Calibro 35 e tantissimi altri.
Si chiama Tommaso Colliva, di Genova, classe ‘81 e tra i suoi riconoscimenti ci sono Nastri d’argento, David di Donatello, Festival di Sanremo, addirittura un Grammy ed è stato anche campionato da Dr.Dre e Jay Z.

Lo abbiamo intervistato per la rubrica Backstage in cui puntiamo i riflettori sui protagonisti del settore musicale a 360 gradi.

 

Ciao Tommaso, da dove viene la tua vocazione per la produzione?

Ho venduto il sax per comprarmi il campionatore, ho passato la mia adolescenza in una piccola realtà ascoltando solo musica di nicchia e lì ho capito di voler fare i dischi.
Poi dopo il liceo mi sono dato un anno di tempo per provare ad inserirmi nel mondo della musica, alla fine del quale, se non ci fossi riuscito, mi sarei iscritto all’università”

 

E come è iniziato il tuo percorso professionale?

Ho iniziato come fonico a Milano, nelle Officine meccaniche, un posto in cui giravano tante ispirazioni, tanti input e sono stati degli anni molto formativi in cui ho scoperto tanta musica che non conoscevo prima.
Ho imparato quindi a registrare un’orchestra, un piano solo, una live band, oltre che a gestire una svariata casistica di situazioni che ti capitava di dover affrontare.
Come ad esempio quella volta in cui arrivarono i Franz Ferdinand a Milano e dovemmo registrare un pezzo nell’unico giorno off del loro tour.
Alla fine di questo periodo inizio a consolidare rapporti con diversi artisti e decido di staccarmi dalle officine meccaniche. Cominciai a lavorare per conto mio focalizzandomi su progetti come Muse e Afterhours.

 

Parlaci del tuo ruolo, del tuo apporto alle produzioni. In che modo un produttore può essere determinante nella riuscita di un album?

 

Parlaci della tua esperienza coi Muse: come è iniziato il tuo percorso con una band così importante?

Li ho conosciuti alle Officine, in cui vennero a registrare gli archi per l’album Black Holes And Revelations. Dovevano fermarsi una settimana, ma alla fine sono rimasti due mesi e mezzo. In questo periodo abbiamo stabilito un rapporto.
Matthew Bellamy si stava trasferendo in Italia e aveva bisogno di un supporto tecnico, uno studio che funzionasse, in cui poteva scendere da casa e registrare tutte le sue idee. Negli anni successivi, a Como, abbiamo costruito un vero e proprio quartier generale da cui è uscito fuori The Resistence, un album che ha fortemente beneficiato di quell’armonia e unità che si erano venute a creare.
Il disco successivo, The 2nd Law, l’abbiamo fatto tra Los Angeles e Londra e lì ho avuto l’opportunità di confrontarmi con gli studi più grandi del mondo e le grandi produzioni.

 

Quali sono le differenze che hai notato tra le produzioni americane-inglesi e quelle italiane?

Io venivo dalla provincia di La Spezia e già trasferirmi a Milano è stato un grande salto. Poi nei grandi studi fuori dall’Italia ho avuto modo di vivere un sistema più standardizzato, settoriale e quindi vederne i pro e i contro. Mi sono accorto che quello a cui la provincia italiana ti forza può essere un valore aggiunto, perché fare esperienze diversificate può essere un vantaggio rispetto alle competenze molto specifiche che si affinano nelle grandi produzioni all’estero.
A volte la mia funzione era di far dialogare diverse figure specializzate tra di loro, come un backliner, un fonico e un musicista, che magari non capivano a pieno l’ambito al di fuori del proprio. Io, forte della mia esperienza e della mia grande curiosità, riuscivo a gestire la cosa proprio perché in Italia si è costretti a dover assimilare il più possibile in ogni settore.

Hai avuto quindi anche modo di seguire i Muse nei loro live?

Di base lavoro in studio e non lavoro molto dal vivo. Dopo aver curato anche la produzione del live di “The Resistence” nel 2009, mi hanno proposto di andare in tour con loro insieme agli U2. Ho scoperto che non mi piaceva.
Il novanta percento del lavoro on stage è assicurarsi che non ci siano problemi durante l’esibizione. Io preferisco usare il cento per cento del tempo per sperimentare e capire come fare cose fighe e non come evitare problematiche tecniche. Poi capisco che dal punto di vista della fruizione il concerto dal vivo è una cosa potentissima, uno spettacolo unico, ma dal mio punto di vista non è poi così emozionante.

 

Quando hai sentito il bisogno di andartene dall’Italia?

 

Concludiamo chiedendoti dei consigli per chi vuole seguire il tuo percorso professionale e artistico: cosa ti senti di dire ai giovani musicisti?

Intervista a cura di Antonio Di Santo e Matteo Cotellessa