Il coraggio di Lowlow per raccontarsi “In prima persona”

Spogliarsi dei filtri stilistici tratti dalla letteratura e dal cinema per mettere completamente a nudo le proprie emozioni e raccontarsi da un punto di vista totalmente nuovo. È la grande novità di “In prima persona”, l’album di Giulio Elia Sabatello, in arte Lowlow, pubblicato venerdì 30 luglio. Il nuovo progetto discografico, uscito a poco più di un anno di distanza dal precedente “Dogma 93”, comprende otto tracce che toccano varie sonorità arricchite da diverse collaborazioni.

Una carriera, quella di Lowlow, iniziata all’età di soli tredici anni, quando si fa notare grazie alle battle di freestyle in giro per l’Italia. Dopo tre album da solista e le collaborazioni che lo vedono accanto a Sercho e Mostro, il giovane rapper sembra aver intrapreso un nuovo percorso che, pur conservando il suo marchio stilistico, esplora lati più intimi della sua personalità.

Raccontarsi senza filtri è stata un’esigenza che si è rivelata piacevole, oppure mettersi a nudo è stato faticoso?
Ci vuole più coraggio, soprattutto a spingersi oltre quello che sai fare. Io voglio cercare di andare oltre la concezione di testo rap e per farlo devo mettere in campo delle cose con cui forse non ho ancora finito di fare i conti. Ed è questa secondo me la grande evoluzione di questo disco, che parla di alcuni aspetti che non ho ancora del tutto definito. È molto facile parlare di una cosa quando ormai appartiene al passato, sicuramente è più facile di questo aspetto qui. Però raccontandosi adesso, con tutte le cose irrisolte, i dubbi, le convinzioni che poi possono cambiare nel tempo, si dà un vero ritratto alle persone. E io credo di avere, trovata questa sicurezza, una grande complessità da sbrogliare alle persone, nel senso che ho tanti aspetti: un’ironia che non era mai venuta fuori, un aspetto umano e positivo nei confronti degli altri. E sono tutte cose che sto piano piano facendo uscire.

Vista l’analisi così lucida sul lavoro che stai facendo, ti chiedo qual è il prossimo passo?
Il mio manager vuole vedermi morto, perché gli ho detto che in promozione devo anche scrivere e registrare le cose nuove. Quindi sto facendo questo doppio lavoro, ogni tanto prendo dei taxi e vado a lavorare in studio a Formello, così nel nulla.
L’ultimo brano di questo disco si chiama “Urlo d’aiuto” e non è una chiusura, così come il primo brano non è un vero inizio, sembra la fine. Il pezzo in chiusura fa semplicemente aprire una porta nella seconda strofa, nell’ultima strofa, su una narrazione di me stesso totalmente senza filtri. Fa intravedere che questa porta è stata aperta, ma che adesso bisogna entrare e andare a raccontarsi. Quindi bisogna vedere questo album come un lavoro di transizione che porterà all’evoluzione di quello che sto già facendo artisticamente.

Ti lancio una provocazione: questo percorso è più firmato Lowlow o più Giulio?
Può diventare una metafora per la domanda che mi hai fatto: ci sono tanti brani, per esempio “Coscienza Sporca” o “Urlo d’aiuto”, dove dal punto di vista di scrittura è come se il piano della realtà si andasse a intersecare col piano della mia testa, che è quasi lisergico, psicotico, ossessivo. È un po’ questo quello che vorrei fare. Io manterrò sempre delle caratteristiche di Lowlow ragazzino, freestyler, perché sono così, credo in me stesso e sono competitivo. Ma allo stesso modo c’è tanto altro, sono cresciuto tanto come persona e se non mettessi la mia crescita in quello che faccio adesso non mi sembrerebbe più un lavoro artistico, ma un lavoro di ufficio. Io credo che l’evoluzione è tipo la fusione di Dragon Ball.

Hai parlato adesso di competizione e tu sei sempre stato molto ambizioso: riesci a mettere un confine tra competizione e ossessione?
No, non riesco ad avere un rapporto sano con niente di quello che mi piace. Adesso mi sto rovinando il cinema perché ho questa fissa di voler vedere tutti i film dei migliori registi, devo guardare due film al giorno, uno di Malick e uno Lynch. Non riesco perché soprattutto con la scrittura e le cose che mi piacciono la prima cosa che penso è “lo posso fare, posso farlo anche io, lo posso fare meglio”. Questa testa è un po’ un’arma a doppio taglio, però lasciando stare la battuta sul fatto che non ho un rapporto sano con le cose che mi piacciono, per quanto riguarda la carriera io credo che bisogna cercare di vedere the bigger picture. Se da una parte sono iper coinvolto (e per me questo è un lavoro iper identitario), dall’altra lavoro per cercare una dimensione di distacco per far sì che quando una singola cosa non va come dovrebbe, io ho la freddezza per rimetterla a posto senza disperarmi o arrabbiarmi.

E nel momento in cui esce un album come questo, potente e molto personale, riesci ad avere la lucidità di godertelo?
Questo è il primo album con cui mi sto anche divertendo nel processo. Ma è un lavoro da fare su se stessi, sulle proprie paure, sulla propria ansia, un lavoro che vorrò fare in futuro con i concerti, cioè bisogna imparare a divertirsi facendo le cose fatte bene. I tedeschi hanno inventato il verbo su Chiellini, Chiellinigkeit, è proprio questo. Adesso ci sto riuscendo, ma si parte da una maggiore tranquillità, da un cambiamento di team e dall’avere iniziato un percorso in cui crediamo tanto, perché ci sembra quello giusto.

 

A proposito di riferimenti e citazioni, questo album ne è ricco, così come i precedenti. Quali sono oggi i tuoi riferimenti? Partendo da David Foster Wallace, che a quanto so ti ha dato tanto
È vero. Ho letto ‎”Infinite Jest” durante la quarantena ed è stata una delle migliori scelte della mia vita. Wallace adesso è quello che è stato Eminem dai 16 ai 23 anni. Poi ultimamente sono fissato con William T. Vollmann, uno scrittore con una storia personale molto tragica che ha un modo di scrivere assolutamente coraggioso, da reporter. Immagina che da qui prendo quindici autobus, vado nel posto più pericoloso che mi viene in mente, mi siedo su uno scalino con un taccuino e chiedo alle persone “perché sei povero?”. Ha questo modo di buttarsi nelle cose molto interessante e sto leggendo un libro che lo riguarda, che racchiude diverse storie. Lui ha convissuto per un periodo con i naziskin di Philadelphia, chiedendogli il permesso di pubblicare, oppure c’è un racconto sui malati terminali di Hiv, un altro su Nabucodonosor, totalmente fantastico perché lui è appassionato di storia. Molto interessante.

Invece dagli artisti con cui hai collaborato in questo album, da Ghemon a J-Ax, sei riuscito a trarre degli insegnamenti?
Tantissimi! Anche SVM e l’atmosfera che è riuscita a dare al pezzo. È come se ogni artista avesse aggiunto un tassello e mi avesse aiutato a raccontarmi in maniera ancora più spontanea e personale.

Nel brano con J-Ax ho notato che hai voluto riprendere una sua vecchia canzone, “Generazione Zero”
Sono fissato con quella canzone, una di quelle che mi ha proprio fatto scuola, un po’ come “Eroe” di Caparezza. Così si fa un brano rap, un pezzo che parla di qualcosa.

 

 

È una coincidenza il fatto che questo album arrivi dopo un periodo di lockdown oppure sei riuscito a fare un lavoro diverso anche aiutato dal contesto?
Non me la sento di dire che una tragedia mondiale possa essere di aiuto. Però voglio dire che durante la pandemia io non ho buttato un giorno, non è stato un periodo di stallo ma con il mio team abbiamo fatto un lavoro sotto la superficie che sta venendo fuori adesso. Ed è il motivo per cui ora ci sentiamo così solidi.
Se uno ha lavorato così tanto in questa situazione, anche l’ipotesi di una riapertura, del futuro, non fa paura. Siamo strutturati, siamo pronti, abbiamo tanta voglia di fare e tanto da prendere.

Ultima domanda, un rito della nostra rubrica: cosa significa per te la musica?
Non lo so, potrei dare una risposta provocatoria. Io non sono il più grande conoscitore di musica, eppure ho tantissime passioni. Il mio problema con la musica è che ci sono talmente dentro che il suo usufruire mi è stato un po’ rovinato. È quello che piano piano mi accadrà con il cinema, perché qualsiasi cosa mi fa pensare che posso farla anche io, che posso farla meglio, che posso copiare o segnare qualcosa. Come direbbe Wallace: “Cos’è l’acqua?” dice il pesce. Sei in mezzo all’acqua e non ti rendi conto di starci. Io con la musica mi sento così. Amo molto la moda perché ci sto fuori, o il cinema finché non vedrò troppi film, ma magari scriverò una sceneggiatura. È il mio modo di avere a che fare con le cose, un po’ malato e un po’ di grande passione.

 

Alessandro Ventre