Rap e non solo per raccontare se stessi: alla scoperta di Djomi, il vincitore del Festival di Castrocaro

Tre album già all’attivo, una serie di premi e riconoscimenti tra cui la vittoria del 65° Festival Di Castrocaro, tanti brani capaci di alternare leggerezza e tematiche più profonde e soprattutto la voglia di spaziare nella musica per raccontare se stesso. Sono solo alcuni dei tratti distintivi di Domenico Giovanni Pini, in arte Djomi, capace di ritagliarsi un posto nell’ampia scena musicale nonostante abbia solo 21 anni.

 

La passione per la musica emerge in tenera età, quando inizia a studiare prima pianoforte e successivamente chitarra e basso, quindi l’influenza del rap e il tentativo di misurarsi come ghostwriter per un amico. Infine, il tentativo ben riuscito di impossessarsi del microfono e dar voce alla sua grande passione, senza tralasciare le influenze di altri generi a lui vicini. Il risultato è un viaggio ricco di grandi emozioni.

 

Come nasce il tuo nome d’arte, Djomi?
Una conversazione con mia nonna. Solitamente mi chiama Domi, nominativo di Domenico, ma un giorno sbiascicando ha detto Djomi, diventato poi il mio soprannome tra gli amici.
Quando dovevo decidere come chiamarmi avevo quattro nomi e questo mi sembrava il più indicato, senza pensare che avrei dovuto passare gli anni a spiegare che non c’entra con la figura del dj.
E poi mi piaceva riprendere questa parola perché uno dei miei film preferiti è Django Unchained, di Tarantino.

 

E a livello artistico come potresti definirti?
Io parto principalmente dal rap, anche se nel tempo ho cercato di inserire altre influenze esterne, perché ascolto tantissima musica, compresi generi molto distanti da questo.
Per dare un’idea, mi piace ispirarmi a modelli come i Gorillaz o Tyler, the Creator. Loro possono fare il brano lento solo con voce e piano oppure quello pesante in cassa dritta, ma hanno la capacità di fare entrambe le cose in maniera credibile e senza che una escluda l’altra.

 

Prendendo spunto da alcuni nuovi progetti dei rapper di oggi, pensi che tutto il genere stia andando in questa doppia direzione di cui parli?
In effetti sta diventando molto comune e lo apprezzo molto. Spesso si fraintende nel pensare che il rapper debba fare solo rap e basta. Non mi piace pensare che una strofa debba essere solo così, che non possa esserci un filo di melodico, e di non mi piace etichettare troppo la musica in categorie.
Oggi ci sono tanti esempi a questo proposito, mi viene in mente uno degli ultimi brani di Post Malone, Take me Home, che è quasi un pop-rock più che rap. È come fare un gin-tonic, bisogna saper dosare bene le due cose, basta che non ci sia troppo ghiaccio.

 

Che tipo di processo creativo segui per fare musica?
In genere applico due metodi che sono abbastanza opposti. In alcuni casi ho un’idea ben chiara in testa e parto da quella, come nel caso di “Ahi Serva Italia”. Cose come “Barman” è invece nata di getto, avevo iniziato a scrivere di questo soldato che annegava i suoi dispiaceri nell’alcool dopo essere tornato dalla guerra e poi ho fatto una costruzione a 360° del personaggio.
Però principalmente parto sempre da una base perché il mio obiettivo è fare un bel testo con delle belle linee melodiche e questo mi permette di avere un lenzuolo su cui lavorare.

 

Hai fatto l’esempio di “Barman” e mi chiedo da cosa ti lasci ispirare per canzoni così profonde?
Dipende dal caso. Per “Barman” è stato un flusso di incoscienza diretta, ma spesso mi capita di fare citazioni o riferirmi a delle figure perché mi vengono in mente cose che ho sentito, letto, o visto. Situazioni che restano dormienti a lungo e poi escono fuori nel momento del bisogno. E poi in alcuni casi riverso nella musica delle emozioni che vivo in prima persona, sia per gli argomenti più leggeri come “Gossip”, sia per alcuni più delicati e intimi, come nel caso di “Parigi”. Sicuramente la musica mi diverte, ma è anche terapia e sfogo.

 

Potrei sbagliare, ma in parecchi dei tuoi lavori più recenti si sente lo stile di Caparezza
È un’osservazione che mi hanno già fatto diverse persone. Ci sono alcune sue cose che ascolto molto, anche perché lui è un artista immenso. Però a essere sincero, ci sono artisti italiani che ascolto di più come Salmo, Ghemon, da cui ho imparato tantissimo, Nitro ed Ensi, che credo sia molto sottovalutato perché ha una forma nel dire le cose più semplice rispetto ad altri, ma arriva come un pugno allo stomaco senza fartelo pesare.

 

Artisticamente nasci come ghostwriter e in università hai scelto Scienze della Comunicazione: quando hai capito di voler lavorare con le parole e farne la tua vita?
È stato un processo che è avvenuto passo dopo passo. Ho fatto il ghostwriter per questo mio amico che mi ha fatto avvicinare alla musica rap italiana. Lui voleva tentare questa strada, così mi sono offerto di scrivergli i testi ma non si lanciava mai, alla fine ho provato io. Poi ho preso delle lezioni di canto, ho allargato i miei orizzonti e così via… Quando mi sono ritrovato a scegliere l’indirizzo universitario, cercavo qualcosa che mi interessasse e che allo stesso tempo mi permettesse di avere libertà con i tempi per lo studio. E qui ho trovato corsi molto interessanti, con concetti e metodi di approccio che mi piace riprendere qua e là.

 

Hai pubblicato di recente il tuo terzo album, “Finalmente”. Adesso che tipo di lavoro ti attende?
Nell’immediato mi piacerebbe trovare soluzioni e posti dove portarlo dal vivo, perché c’è tanta voglia di condividere questi brani.
E poi sto lavorando a nuove uscite, ma ho sperimentato tanto e vorrei trovare a delle composizioni più amalgamati. Nell’ultimo album ci sono cose che mi piacciono molto, ma mi rendo conto che avrei potuto migliorare alcuni passaggi necessari a fare da collante.