I Jaspers presentano “Le laid c’est beau”, un’analisi per chi vive nelle grandi città

Dopo “Rockstar” e “Dante”, il ritorno sulla scena musicale dei Jaspers passa da “Le laid c’est beau”, un brano che riflette sulla qualità della vita nelle grandi città, dove gli abitanti arrivano ad apprezzarne anche i difetti.

 

L’eclettica e inconfondibile band nata nel 2009 e composta da Fabrizio Bertoli e Giuseppe Ferdinando Zito (voce), Erik Donatini (basso elettrico), Eros Pistoia (chitarre), Francesco Sgarbi (tastiere) – oltre all’attuale collaborazione di due diversi batteristi, Roberto Gualdi e Marco Antoniazzi – riprende un’espressione attribuita a Victor Hugo per scattare una nuova fotografia della realtà urbana e lo fa attraverso la combinazione di un testo profondo e sonorità tratte da vari generi musicali.

 

Una ricetta vincente che, come racconta la stessa band a “Sound On”, fa parte di un progetto che nel prossimo autunno sarà ancora più concreto grazie alla pubblicazione del nuovo album.

 

 

Avete da poco pubblicato il vostro ultimo singolo, “Le laid c’est beau”: come lo descrivereste?
L’idea nasce proprio dal titolo del pezzo, che si potrebbe tradurre con “Il brutto è bello”, aforisma tratto da una vignetta satirica dell’Ottocento. All’epoca, lo si rappresentava in maniera scherzosa e simboleggiava il passaggio estetico tra il neoclassicismo e il romanticismo. Da un’idea di bellezza ideale si passa a un’estetica che va a scavare nei personaggi e trova anche aspetti negativi, fino ad accentuarli.
Questa brevissima frase che però racchiude un importante concetto ci ha fatto venire in mente un parallelismo con la vita in città, dove per sopravvivere e accettare il modo in cui viviamo dobbiamo assecondare proprio il fatto che il brutto è bello. Se tralasciamo i nostri bellissimi centri storici, ci si rende conto che la speculazione edilizia aggiunta all’immondizia, all’aria inquinata e adesso anche al caldo ci fanno vivere nel brutto. Così ci siamo resi conto che in alcuni momenti ci si guarda attorno e tutto è talmente terribile e negativo da fare un giro e diventare bello, fino a essere apprezzato.

 

I vostri brani toccano diversi temi sociali, come dimostra anche questo ultimo brano. Quali sono le tematiche con cui vi trovate più a vostro agio e quali invece diventano più difficili da raccontare?
Cerchiamo sempre di partire da esperienze personali, o da situazioni alle quali siamo testimoni. Proviamo a capire il motivo di quanto accaduto e riflettiamo questi fatti sulla società, per trarre i lati più grotteschi di queste esperienze. Ci troviamo maggiormente a disagio nel parlare di politica in maniera diretta o di tematiche troppo sdolcinate, non sono nelle nostre corde.

 

Prima di “Le laid c’est beau” avevate pubblicato altri due singoli in vista del nuovo album, “Rockstar” e “Dante”: che genere di progetto state portando avanti?
Per noi si tratta di un nuovo inizio. Dopo le esperienze passate, avevamo bisogno di realizzare qualcosa in cui crediamo e che ci permetta di avere il pieno controllo creativo. Però prima di lanciarci dal nulla con un intero album, abbiamo preferito uscire con alcune canzoni più interessanti per osservare la reazione del pubblico e capire in che modo procedere.
Abbiamo portato a termine questa prima fase e in autunno pubblicheremo l’album, che ovviamente conterrà questi brani più altri inediti, di cui uno da apripista.

 

Qual è il processo creativo che si mette in moto per la realizzazione di una vostra canzone?
Non ne abbiamo uno standardizzato, ogni canzone fa un percorso a sé. Solitamente uno di noi presenta un’idea, che può essere più o meno compiuta e se piace si comincia a lavorare insieme.
Agli inizi era diverso, lavoravamo molto in sala prove e in maniera lenta si improvvisava, fino ad arrivare a idee più concrete.

 

Una band come la vostra, che non è mai stata facilmente inserita in un determinato genere musicale, come sta vivendo questo fluidificarsi della musica?
Non abbiamo ancora avvertito questo aspetto, ma se fosse davvero così per noi sarebbe un’ottima notizia. Essendo un gruppo molto democratico, le nostre personalità si uniscono e questo rende impossibile etichettarci in un unico genere. Ma per quanto possa risultare poetico, a livello commerciale si tratta di una difficoltà in più.

 

Siete reduci da una lunga esperienza in un programma televisivo, “Quelli che il calcio”. Cosa ha rappresentato per voi?
È stata un’esperienza molto positiva e formativa sotto diversi punti di vista. In quel contesto la musica era semplicemente un contorno, con dei tempi ben precisi da rispettare. Bisogna inoltre considerare che essendo un programma basato sulle partite di calcio, a seconda di quello che accadeva e dei risultati bisognava improvvisare la scaletta ed essere sempre pronti a dei cambiamenti improvvisi. In più ci ha permesso di conoscere tanti addetti al settore, tanti ospiti del programma, e anche questo ci ha arricchiti molto.

 

Qual è il sogno nel cassetto dei Jaspers?
Poter vivere della nostra musica. Ancora non si è realizzato, è complicato, ma per qualche strano motivo continuiamo a investire, lavorare e crederci. Quando si è ragazzini e si inizia a scoprire questi grandi artisti che fanno tournée mondiali, il sogno è quello di poter diventare come loro.

 

 

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