Giornalismo e rock si incontrano con Elisabetta Rosso, componente dei Nakhash

L’esigenza di raccontare e raccontarsi attraverso diverse forme di scrittura, gli occhi vispi di chi sogna in grande e tanti aneddoti da svelare, come l’incidente che ha portato alla rottura di un amplificatore durante un concerto o il particolare mal di pancia che anticipa la stesura di un nuovo brano.
Elisabetta Rosso, attualmente impegnata in uno stage nella nostra redazione di Tgcom24, riesce a conciliare in maniera egregia la passione per il giornalismo e quella per la musica, trovando un denominatore comune nella scrittura. Così, ha raccontato a Sound On il progetto che dal 2014 la vede protagonista come cantante e chitarrista dei Nakhash, gruppo indie-rock nato ad Asti nel 2014 che comprende anche Riccardo D’Urso con la chitarra solista, Simone Bussa al basso e Lorenzo Papale alla batteria.
Un percorso che ha visto la band trionfare al San Jorio Festival nel 2015, per poi continuare con diversi festival e un breve tour su palchi come Astimusica, Collisioni, Viper, Audiodrome e l’Hiroshima. Fino al concorso Emergenza Festilval, che all’Alcatraz di Milano ha riconosciuto i Nakhash tra le migliori quattro band italiane.

 

Come nascono i Nakhash?
Tutto inizia tra i corridori di scuola, nel 2014. Non si trattava di una vera conoscenza, ma sapevamo che suonavamo. Io avevo delle canzoni e volevo renderle concrete, così siamo riusciti attraverso dei contatti a incontrarci in un bar e gli ho parlato del progetto che avevo in mente, portare sul palco degli inediti, con qualche cover in aggiunta solo per riempire i concerti . Siamo partiti subito bene nel formare la band, abbiamo cominciato a suonare in una saletta veramente malconcia che apparteneva a un prete e che secondo me era infestata perché c’erano dei fischi assurdi.

 

In un primo periodo avete cantato in inglese, poi il passaggio alla lingua italiana
I primi brani erano in inglese, che per questo tipo di musica è più semplice: le ritmiche rock si sposano meglio con le parole tronche, ovvero la maggior parte di quelle inglesi. Quando abbiamo partecipato a un concorso all’Alcatraz di Milano, abbiamo conosciuto Stefano Verderi, chitarrista e tastierista del gruppo Le Vibrazioni. Grazie a lui siamo passati all’italiano, con sforzi immani perché i primi pezzi erano veramente terribili. Abbiamo voluto farlo perché ci piacerebbe portare in lingua italiana un genere musicale tipicamente inglese, americano, nord-europeo.

Durante il vostro percorso avete mai preso in considerazione l’idea di partecipare a un talent?
Se c’è stata, è naufragata in fretta. Sia per il genere, sia per l’identità che abbiamo, noi preferiamo essere fedeli a quel filone per cui si fanno dei concerti dove le persone possono conoscerti, si lavora sui social, fino a creare un pubblico fedele che non sia preconfezionato come potrebbe essere quello di un talent.
I motivi sono principalmente tre. Da una parte la nostra filosofia non è particolarmente affine a quella di un talent; in secondo luogo, c’è un po’ il terrore che possa snaturarci, considerando che noi siamo ben felici di accettare consigli, ma vorremmo avere noi l’ultima parola. Infine, se si fa eccezione per i Maneskin, avviene il cosiddetto mito delle stelle cadenti, dove si vivono tre mesi di celebrità e poi si finisce nel dimenticatoio. Perciò abbiamo pensato che, pur essendo più faticoso, fosse più adatta a noi l’idea di raccogliere pezzo per pezzo il proprio pubblico. Mai dire mai, ma per adesso questa è la nostra filosofia.

 

Abbiamo parlato di talent e hai accennato ai Maneskin, che sembrano aver riportato in auge un genere che sembrava essere stato un po’ accantonato negli ultimi anni…
Il genere rock è tornato mainstream, ma non è mai morto. Ci tengo a sottolinearlo, nel sottobosco musicale indipendente il rock ha sempre respirato bene, ha sempre continuato a esserci. Ha solo trovato un difficile sbocco per le vie ufficiali, ovvero le major e il pubblico internazionale.

 

Secondo te c’è una spiegazione a questa difficoltà?
La discografia si muove sullo stesso binario da secoli, si cerca di intercettare il gusto del pubblico. Probabilmente in questo periodo c’era una richiesta di trasgressione e nella musica il rock è l’analogia più vicina. Si è visto anche con la trap, che ha anticipato una corrente che riprende – in maniera anche estetica – questi miti degli anni Settanta. Che poi bisognerebbe domandarsi cosa sia davvero fuori dagli schemi oggi, perché un conto è farlo negli anni Settanta, un altro è farlo nel 2020.

 

Il vostro gruppo vive la trasgressione?
Servono due risposte a questa domanda.
In maniera generica siamo piuttosto rock ‘n roll ma abbiamo scelto di non voler necessariamente essere trasgressivi. Il nostro ultimo lavoro si concentra principalmente sul filone narrativo dell’insofferenza e non vogliamo generalizzare trovando dei dogmi fondamentali, bensì raccontiamo la nostra esperienza e le nostre problematiche nell’affrontare la quotidianità con un’attenzione particolare sull’incertezza che viviamo.
Da un punto di vista pratico, invece, il genere porta ad essere ad essere particolarmente scatenati e sul palco lo siamo. Non sono mancati incidenti, come quando abbiamo spaccato in maniera fortuita un amplificatore. Ti direi che siamo dei trasgressivi involontari, le cose più assurde e divertenti in realtà non volevamo farle.

 

Hai fatto riferimento al progetto sull’insofferenza: in che modo ha inciso la pandemia?
Ha alimentato un pensiero che portavamo avanti con la musica. Il nostro primo Ep inizia con “Iconoclasta”, già il nome racconta l’insofferenza verso qualcosa di sacro, precostituito. Si tratta del desiderio di poter vivere come si vuole, senza rimanere incastrati in preconcetti, aggiungendo una sana ironia che in fondo caratterizza i nostri pezzi.
La pandemia si è inserita in questo filone e da qui è nato il secondo pezzo “Melancolia”, scritto proprio durante i primi giorni di lockdown. Stavo facendo un lavoro personale sul problema del vincolo, perché mi sento molto oppressa, chiusa, una sorta di claustrofobia sociale e la pandemia ha toccato questo tasto e ha accentuato tutto, dando vita al brano.

 

 

Come avete vissuto il ritorno sul palco?
È stato come tornare a respirare di nuovo. Avevamo paura di essere arrugginiti, ma in realtà è come andare in bicicletta, quando si sale sul palco diventa tutto estremamente normale. È un posto dove non mi sono mai sentita a disagio e credo che sia una cosa bellissima. Anche dopo due anni di stop, tornare a suonare è stata una gioia immensa.

 

Come gestite il rapporto con il pubblico più fedele?
Comunichiamo principalmente attraverso le canzoni. Sui social ammetto che siamo un po’ intermittenti. Non siamo particolarmente social, ma ci sforziamo per la band e questa cosa secondo me un po’ traspare.

 

 

Quale processo seguite per la nascita di un brano?
Di solito io porto lo scheletro, un giro di chitarra con una melodia e un testo. Poi ci costruiamo sopra ed è lì che inizia una vera e propria guerra tra tutti noi perché ognuno ha le proprie idee. È la parte più produttiva, dove ci azzanniamo, finché non ci troviamo a brindare con quattro birre e una canzone che funziona.

 

Insomma, la discussione serve
Io e il chitarrista abbiamo un rapporto amore-odio. Però è quello lo spazio in cui si crea. Che si faccia tirandosi le sedie o con una tazza di thè davanti, il confronto porta alla canzone.

Avendo maturato già esperienza in due diverse lingue, con quale criterio scegliete se procedere in italiano o in inglese?
Dipende, ogni pezzo ha la sua storia e nasce diversamente. C’è quello che inizia da una parola, o dal riff, c’è il pezzo che inizi a canticchiare e ti rimane in mente. È un’avventura che non sai dove ti porta e ce ne sono tantissimi che finiscono nel dimenticatoio prima di poter fare uscire qualcosa di buono.
Però una cosa che mi succede sempre è che prima di scrivere un pezzo mi viene un mal di pancia atroce. Mi è capitato anche pochi giorni fa, la sera ho sentito lo stomaco stringersi come una spugna e il mattino dopo ho preso la chitarra ed è nato così, immediato e istintivo. Sapevo che era pronto e doveva solo uscire.
Se vogliamo trovare un denominatore comune nella scrittura, all’inizio è sempre un lavoro di pancia. Non mi è mai capitato di scrivere a tavolino, con un’intenzione ben precisa. Poi invece seguiamo un lavoro molto più razionale.

 

Lavorare con un’etichetta indipendente vi aiuta in questo?
Si dialoga con il produttore, chiaramente, però come dicevo prima vogliamo analizzare tutto e decidere noi cosa accettare. Un pezzo è un po’ come un figlio ed è difficile scendere a compromessi, il bello di un’etichetta indipendente è poter avere questa libertà.

 

Mi parli dell’ultimo singolo pubblicato dal vostro Ep, “Tamango”?
Occupa un posto speciale nel nostro cuore. Parla di amore, ma in stile Nakhash e quindi con un po’ di cinismo e sarcasmo. Il Tamango è un cocktail tipico torinese, leggenda vuole che abbia effetti allucinogeni e la ricetta è segreta. E così diventa l’analogia perfetta per raccontare l’innamoramento: una sbronza di sentimenti non esente da postumi.

 

Il tuo pezzo preferito?
Non è ancora uscito e si chiama “Ostriche e whisky”. Contiamo di riuscire a pubblicarlo a dicembre, fine anno.

 

 

Alessandro Ventre

 

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